“Il coraggio non mi manca. È la paura che mi frega.”
Questa fu una battuta di Totò. La paura è un sentimento che tutti noi, genitori, proviamo quando siamo confrontati con qualcosa che non va nei nostri figli. È solo naturale. Ciononostante è indubbio che affrontare la questione potrebbe fare la differenza tra migliorare o aggravare la situazione. Tuttavia, quando si parla di DSA, potrebbe contrapporre il successo con il fallimento, non solo scolastico, ma anche professionale e soprattutto personale.
Quindi se hai a cuore il benessere di tuo figlio non ti “far fregare dalla paura” continua a leggere per capire meglio cosa significa fare una valutazione DSA per tuo figlio.
La paura di fare una valutazione DSA per molti genitori deriva dal timore di un disturbo che non si conosce. Si teme di scombussolare il bambino, di causarne l’emarginazione o peggio renderlo vittima di bullismo. Si ha paura per il suo futuro. Per tutti questi motivi molti genitori procrastinano pensando di salvaguardare il bambino, sperando che passerà crescendo.
Paura di una valutazione DSA in breve
Perché la valutazione DSA non deve spaventare
È importante capire perché questa valutazione non deve fare paura, perché se è quello che proviamo, sarà quello che trasmetteremo, anche senza rendercene conto. Il genitore può trasmettere questo timore al bambino o per esempio l’insegnante ai genitori. Quindi la prima riflessione la dobbiamo fare noi adulti. Ci sono due concetti di cui tener conto.
Cos’è la dislessia o un DSA
Spesso la paura è determinata da ciò che non si conosce. Anche se ormai il termine dislessia è conosciuto da tutti, il suo vero significato è ancora poco chiaro per molti. Non è raro sentire dire a qualcuno che farfuglia: “Oggi sono un po’ dislessico”. O anche sentire parlare di questa malattia o addirittura qualcuno ritiene che sia un ritardo mentale. Non è così.
I DSA sono una caratteristica neurobiologica. Ciò significa che la persona nasce con questa particolarità. Quindi non può essere annoverata tra le malattie perché, come la definisce il dizionario, una malattia rappresenta un’alterazione transitoria e reversibile. Non è neppure un ritardo mentale, perché tra le condizioni essenziali alla diagnosi di DSA c’è un livello intellettivo, QI, nella norma o superiore. È un disturbo perché, secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, interferisce con le normali capacità di adattamento e partecipazione di una persona in un certo ambito della vita. E mi sento di aggiungere che più si vuole ignorare i DSA, più il disturbo è importante. Se invece si impara a capirne il funzionamento, il disturbo diventa marginale, a volte anche il tocco in più (vedi i personaggi dislessici famosi).
Tu cosa pensi della dislessia? Ti fa paura o la conosci?
Cos’è una valutazione di DSA
Se consideriamo il termine valutazione generalmente pensiamo ad un giudizio. A scuola la valutazione determinerà il voto. Tuttavia in questo contesto non è tanto un esame, quanto uno studio. Sembra di giocare con le parole, ma riflettendoci un’attimo la differenza è sostanziale.
L’obiettivo di una valutazione di DSA è capire uno stato di fatto, non andrà a determinare un nuovo problema, ma mette soltanto in luce una componente del vissuto del bambino. Tanto è vero che i vari test che vengono svolti, non hanno una connotazione prestativa e pertanto il bambino non proverà ansia, ma bensì un senso di adeguatezza, perché non ci si concentra sugli errori, ma sugli aspetti positivi.
Cosa significa mettere in luce una componente del vissuto del bambino? Se immaginiamo il vissuto del bambino è composto da tantissime cose, tutti i processi di crescita fisiologici, tutte le sue esperienze, tutte le relazioni sociali e affettive, e tutto questo vissuto è interconnesso e interdipendente. Mettere in luce è come riuscire a puntare un proiettore su un aspetto specifico del suo vissuto e così riuscire a vedere come funziona. Non è come fare il tampone per il Covid-19, e avere la paura di trovare un virus. Invece è come accendere la luce in una stanza buia e capire dove andare.
La domanda che rimane è se vuoi capire dove andare.
Cosa significa procrastinare una diagnosi DSA per il bambino
Mentre noi adulti traccheggiamo, com’è la situazione del bambino? Il rischio sta nella propria identificazione. La determinazione di “chi sono” è la chiave della felicità e questa definizione ce la creiamo man mano, crescendo, grazie alle nostre esperienze e alle nostre relazioni. Le caratteristiche collegate con questa definizione sono l’autostima, l’autoefficacia e la motivazione che hanno tutte un impatto notevole non solo nell’immediato, ma anche per il futuro uomo o donna che diventerà.
Il dislessico, disgrafico o discalculico che sia, lo è dalla nascita. Fino all’entrata a scuola il suo percorso è abbastanza liscio. La cosa cambia con l’ingresso a scuola. Invece di un’autostrada diventa più un sentiero di montagna con tanti sassi, buche e salite. Il suo percorso diventa difficile.
Tuttavia mentre lui fa una gran fatica, vede chi cammina con lui passeggiare allegramente fischiettando. Come ti sentiresti? La logica ti richiede una spiegazione a questa incongruenza. Per di più non è un rapporto uno a uno, ma se immaginiamo una classe, il rapporto è di 1 a 20. Qual è l’unica spiegazione che il bambino riesce a dare? Non è un problema del sentiero, sono io. Qui sta il danno che si fa nel procrastinare. Il bambino ne deduce che è lui il problema e, invece di avere come etichetta Antonio, Paolo o Francesca, diventa lo svogliato, l’incapace, la distratta. Più il tempo passa più la convinzione diventa profondamente radicata. Possiamo ben immaginare le conseguenze di ciò a livello personale anche in età adulta, se non si interviene in modo adeguato.
Quindi se gli vogliamo bene non dobbiamo procrastinare. Ma cosa fare e soprattutto come?
Qual è la responsabilità degli adulti
In qualità di adulti, noi genitori per prima, abbiamo la responsabilità della cura del benessere del bambino. Perché spesso si rivela una sfida? I DSA non si manifestano come un’influenza, con febbre e tosse. Di solito i primi segnali sembrano non avere attinenza con l’apprendimento, ma bensì spesso sembra più un problema di educazione. Questo fatto porta sovente ad una contrapposizione tra genitori e insegnanti, ognuno ritenendo l’altro responsabile. Ovviamente ognuno cercherà di fare del suo meglio per risolvere la questione, ma è importante ricordare che entrambi sono responsabili del benessere del bambino sia a casa che a scuola e hanno il dovere di stabilire un intervento veramente adeguato.
Perché dico veramente adeguato? Non è raro che sia genitori che insegnanti si ritrovino ad andare avanti per tentativi, per permettere al bambino di imparare a leggere, scrivere e far di conto.
Tuttavia tutti gli interventi possibili a scuola o fuori, così come quello logopedico, psicomotorio o quello psicologico non sono positivi di per sé, perché sono strumenti. Se lo strumento non è utilizzato in modo opportuno, è un po’ come usare una pinza per piantare un chiodo, non sarà efficace. Di conseguenza andrà ad complicare ancora di più la situazione. La valutazione permette di capire esattamente quali strumenti vanno applicati tenendo in considerazione tutti i pro e i contro.
Quindi la prima responsabilità è fare una valutazione DSA per capire esattamente qual è il problema e qual è il modo più adatto di affrontarlo. Questo non significa semplicemente dare un nome al problema, perché l’unico risultato che si potrebbe ottenere è che il bambino invece di attribuirsi l’etichetta di svogliato, incapace o distratto, si affibbierà quella di dislessico, disgrafico o discalculico. In questo caso non abbiamo cambiato niente. Il bambino si identifica sempre come il problema. Allora cosa fare?
Insegnanti un supporto per il benessere scolastico
Inizio col parlare degli insegnanti perché sono loro in prima linea. Generalmente sono gli insegnanti che possono notare le prime difficoltà e gestire in modo efficace questa situazione. In pratica, questo significa assolvere la propria responsabilità di aver cura del benessere del bambino a scuola. La direzione dei provvedimenti dell’insegnante non deve essere data dal disturbo, ma bensì dal principio di rispetto e inclusione.
Con questo spirito non sarà tanto importante l’etichetta diagnostica, anche se necessaria, perché come detto prima, noi adulti dobbiamo avere chiaro in mente cosa e come fare. Ma l’insegnante riconoscerà questo tratto particolare del bambino e lo aiuterà a capire che non è lui il problema, ma che sta percorrendo un sentiero diverso dagli altri.
Sentirsi capito e sostenuto permette al bambino di identificarsi come Antonio, Paolo o Francesca, e la dislessia sarà il nome del sentiero. Una cosa al di fuori da lui, da imparare a gestire.
Genitori come sostegno
Una volta capito chiaramente cosa bisogna fare dopo la valutazione DSA e avere una diagnosi in mano, inizia il vero mestiere del genitore. La nostra responsabilità è il benessere di nostro figlio per permettergli di crescere in modo equilibrato per raggiungere i suoi obiettivi nella vita. Dobbiamo ricordare che quell’etichetta diagnostica non è nostro figlio, ma un tratto caratteristico e noi dobbiamo sostenerlo nel suo percorso, certamente non facile, ma la soddisfazione non deriva dalle cose facili, ma dall’impegno profuso e relativo risultato.
La chiave per raggiungere quest’obiettivo è la stretta collaborazione con la scuola e gli specialisti. Quindi lavorare in questo senso aiuterà certamente il bambino e in seguito ragazzo nel suo percorso. Quando siamo a questo punto, tuttavia rimane una domanda che ogni genitore si è posto: come dire a mio figlio che è dislessico.
Come dire ad un bambino che è dislessico
Per prima cosa dobbiamo ricordare che il bambino sapeva prima di noi che qualcosa non quadrava. Quindi lui è già al corrente. Non sarà una sorpresa.
Ad ogni età l’approccio sarà diverso. Quando il bambino è piccolo non avrà per forza bisogno di capire la definizione del disturbo, ma avrà bisogno di capire che non è stupido o pigro da una parte e dall’altra quali modalità usare per aggirare l’ostacolo.
Dalla quinta elementare in poi è utile coinvolgerlo sempre di più nel puntare al raggiungere i propri obiettivi di studio. Per esempio nella costruzione di strategie e metodologie, non per rendere lo studio più facile o più bello, ma in realtà per rendere una cosa complessa e faticosa sensata. Così da raggiungere una sana prospettiva di possibilismo.
Con i ragazzi grandi questo concetto è ancora più acutizzato in modo da renderli artefici del proprio metodo di studio.
Indipendentemente dall’età, come genitori dovremmo trasmettere chiarezza e devono sapere che, anche se, per riprendere l’esempio di prima, non siamo sull’autostrada, ma su un sentiero di montagna, saremo sempre con loro per accompagnarli e aiutarli.
Non possiamo essere genitori perfetti, ma affrontando i DSA con serenità possiamo accompagnare i nostri figli nella loro crescita fino a diventare uomini e donne equilibrati in grado di raggiungere il loro obiettivi nella vita.