La motivazione allo studio per imparare con efficacia in breve
Come nasce la motivazione nello studio
La motivazione è il motore che ci spinge a fare una determinata azione. Per quanto riguarda l’apprendimento, anche se fondamentalmente sarebbe innato, quando si parla di scuola non sempre rimane tanto naturale.
La spinta può venire sia dall’esterno, per esempio con una ricompensa, come un bel 10 o l’apprezzamento da parte dell’insegnante o del genitore. Oppure può essere insita nella persona stessa. Sarà quest’ultima che avrà più forza, perché non dipenderà da fattori esterni. Ciononostante è anche quella più difficile da stimolare e soprattutto mantenere nel tempo. Essenzialmente la motivazione intrinseca deriva da una soddisfazione che si prova personalmente, intimamente.
Fonti di soddisfazione intrinseca
Come già detto, fin da neonati abbiamo il desiderio, anzi l’istinto, di volere imparare. Questo desiderio si alimenta proprio di questo sentimento di gratificazione personale. Talvolta non ci soffermiamo a riflettere sulle fonti di questa intima soddisfazione, però sottovalutarne la consapevolezza potrebbe farci perdere di vista il meccanismo di base. Vediamo quali sono le fonti di questo intimo piacere.
La curiosità
La curiosità non ha un andamento lineare, per esempio il neonato, spinto dalla curiosità, scoprirà il suo corpo, ma una volta scoperto tutto perderà completamente interesse. Man mano che cresce rivolgerà la sua curiosità a cose nuove, farà domande per sapere il perché delle cose. La curiosità ha un effetto fortissimo ed è stato definito essenziale addirittura per la sopravvivenza della specie. La soddisfazione della propria curiosità prescinde il riscontro esterno, perché deriva dal raggiungimento della chiarezza e di averla cercata.
La curiosità è stimolata dalla consapevolezza sia di ciò che non si sa (e che si potrebbe scoprire) e sia dall’essere cosciente della propria capacità d’imparare. Quindi potremmo identificare 3 cose che ammazzano la curiosità:
- Una stimolazione non adatta al livello del bambino.
In presenza di plusdotazione, da un punto di vista metacognitivo, lo studente potrebbe pensare che non c’è più niente da scoprire. Al contrario un bambino in difficoltà, potrebbe pensare che è incapace d’imparare. - Una struttura organizzativa troppo rigida.
La soddisfazione che deriva dal chiedere e voler capire è superato dalle punizioni nell’averlo fatto (viene deriso o punito perché l’intervento è considerato stupido, inopportuno o fuori luogo). - Un trasferimento di conoscenze troppo esaustivo.
Se è stato spiegato o presentato tutto, non c’è più bisogno di cercare altro.
Va comunque detto che questa grande forza e simile ad un cavallo selvaggio, va domata, perché sennò potrebbe diventare anche fonte di grande distrazione. Ad ogni modo i bambini crescendo dovrebbero passare da una forma superficiale della curiosità e dell’attenzione ad un’espressione sempre più sottile e attiva.
La competenza
Questa caratteristica può riguardare l’area linguistica, pedagogica o manuale, ma in tutti questi casi definisce la capacità che si ha di fare, che sia il manipolare parole, conoscenze o oggetti e strumenti. La competenza include l’attitudine, la capacità, l’efficienza e la pratica.
Da adulti, l’importanza data alla responsabilità individuale, all’iniziativa personale e all’atteggiamento fiducioso nelle proprie decisioni diventano le motivazioni più importanti per acquistare competenza. Tuttavia una verità della quale dobbiamo prendere atto è che conserviamo l’interesse per un’attività solo quando si raggiunge un certo livello di competenza. Questo fatto ha una grande rilevanza quando si considera i DSA.
Il modello di identificazione
In questo contesto l’identificazione ha attinenza con il desiderare fare proprio le qualità dell’insegnante. Questo stimolo si riscontra in maniera naturale nell’apprendimento del linguaggio. Il bambino impara provando, correggendosi e controllando la correttezza del suo modo di parlare seguendo il modello dei genitori fino ad arrivare a costruire le sue frasi in maniera indipendente e autonoma.
In ambito scolastico, nel nostro percorso, penso almeno una volta sia capitato a tutti di incontrare un professore o un maestro appassionato nel suo modo di spiegare e di vivere quella materia. È come se ci trasmettesse questa passione, perché dentro di noi desideriamo vivere quella materia nello stesso modo, appunto identificandoci con quel modello. Questo intimo desiderio ci spinge a sviluppare un’energia ed un atteggiamento diversi, nuovi. È la motivazione intrinseca.
La motivazione della reciprocità
Questa nasce dal sentimento, non tanto di imitazione, ma il concetto riguarda la necessità di dare il nostro contributo al gruppo per raggiungere un obiettivo. Un esempio banale potrebbe essere quando in tre o quattro persone devono spingere una macchina; ognuno adatta i suoi sforzi all’impresa o all’obiettivo da raggiungere. Questo senso di reciprocità rispetto al gruppo diventa uno stimolo intrinseco per raggiungere una meta.
La reciprocità del sapere
Quando si parla di reciprocità s’intende un rapporto dinamico tra due parti con caratteristiche diverse tra loro. Quindi parlando di reciprocità del sapere potremmo dire che lo stimolo in questo caso risiede nella consapevolezza di poter contribuire al sapere del gruppo. Questo aspetto si riscontra per esempio nel caso di un seminario dove i partecipanti si confrontano apportando ognuno il suo contributo all’argomento trattato. Ci si sente tutti partecipi dell’apprendimento e la motivazione non arriva dalle lodi degli altri, ma dal sentirsi intimamente utili all’apprendimento del gruppo.
Perché si perde la motivazione per lo studio
Una volta identificate le varie fonti di stimolazione intrinseca può risultare più facile capire perché, specialmente in presenza dei disturbi specifici dell’apprendimento, la motivazione per lo studio o per la scuola tende a sfumare più o meno presto.
Ripensando all’esperienza vissuta con mio figlio, alla luce di queste 5 fonti di carica emotiva, forse la prima causa di demotivazione, credo sia la mancanza di competenza.
Il bambino dislessico non riesce ad avere la competenza sufficiente per svolgere il compito in modo agevole, prima, e con risultati adeguati, secondo. Credo che basti già arrivare alla terza classe, perché consideri che tanto non serve impegnarsi, manifestando le prime caratteristiche di impotenza appresa. Gli ultimi tre aspetti esaminati dipendono molto dal clima della classe e dal rapporto con l’insegnante. Anche se gli insegnanti cambiano, ma il segno che ognuno di loro lascia, rafforza o indebolisce il proprio stimolo a studiare.
Motivazione e autostima
Forse avrai notato che alla base dei motivi per studiare non compare l’autostima. Nel corso del tempo ho notato che viene data molta importanza all’autostima per mantenere lo stimolo a studiare. Tuttavia personalmente credo che l’autostima sia una caratteristica certamente necessaria, ma nel bambino si va formando nel corso del tempo e per formarsi ha bisogno prima di tutto delle 5 caratteristiche menzionate all’inizio.
Per esempio, con mio figlio, all’inizio del nostro viaggio nel mondo della dislessia, quando aveva l’età di 8 anni, seguì un percorso con un logopedista (il quale, ahimé, doveva sottostare alle direttive ricevute). Il percorso puntava proprio ad aumentare l’autostima, forse mi sbaglierò, ma se non migliorava la sua competenza, come poteva aumentare la sua autostima? I fatti dimostrarono che il mio ragionamento non era del tutto fuori luogo. Durante il periodo delle vacanze lavorò con un’altra logopedista che invece si concentrò in un primo tempo sulle abilità di lettura. A settembre, di rientro a scuola, ebbe la soddisfazione di rendersi conto lui stesso dei suoi progressi. Si rese conto che aveva acquisito un certa competenza. Era capace. È in quel momento che si rafforza l’autostima. Per questo motivo, credo personalmente che sia una conseguenza, in particolare se si parla dei bambini.
Come motivare allo studio
A questo punto qualcuno potrebbe dire: “Ora ti voglio!” Questa era tutta teoria, ma come si fa a motivare allo studio?
Diventare un facilitatore dell’apprendimento
Lo scrittore greco Plutarco disse:
“Insegnare non è riempire un secchio. È accendere una fiamma.”
La curiosità ha certamente un ruolo importante nell’accendere questa fiamma. Un maestro in tutti i sensi da questo punto di vista è Alberto Manzi. Che dire però degli altri aspetti?
In questo contesto trovo molto interessante alcune riflessioni dello psicologo Carl R. Rogers. Questo psicologo considera l’insegnamento non un passaggio di informazione, ma bensì una facilitazione dell’apprendimento. Per creare le condizioni giuste identifica alcune qualità attitudinali fondamentali:
- la genuinità;
- la stima, accettazione e fiducia;
- la comprensione empatica.
Nel descrivere la genuinità del facilitatore dell’apprendimento (in primis l’insegnante), nel suo rapporto interpersonale deve esistere un contatto personale reale con lo studente. Questo facilitatore è se stesso, non si nasconde dietro un paravento o la maschera del ruolo che ricopre.
Il secondo aspetto relativo alla stima e alla fiducia e qui voglio citarlo direttamente:
“È una forma di interesse per il discente, ma di un interesse non possessivo; si tratta di accettare un individuo diverso come una persona distinta, che ha un suo valore intrinseco, di una fondamentale fiducia – la certezza che questa persona sia, in qualche modo, essenzialmente degna di fiducia.“
Per quanto riguarda le persone con DSA, non è raro che manchi la fiducia in loro proprio perché, da una parte non si conosce le peculiarità dovute ai DSA di quello specifico studente e dall’altra le difficoltà sembrano mancanza d’impegno.
Questo si interseca con l’ultimo aspetto che è la comprensione empatica. Questo significa che l’insegnante comprende le reazioni intime dello studente. Avrà una sensibilità tale da diventare consapevole di ciò che suscita nello studente il processo di apprendimento. Purtroppo quando un insegnante avvicina un alunno dislessico per sapere, veramente, come vive il suo processo di apprendimento è risentito spesso come un evento eccezionale, ma questa comprensione empatica è uno sprone potentissimo.
Nella pratica, come si può migliorare la motivazione dei dislessici
Tenuto conto che generalmente tutti i ragazzi, ma particolarmente i dislessici, non hanno una visione complessiva del proprio percorso di studio; se i propri sforzi non soddisfano le richieste, non vedono il vantaggio di studiare. Da questo si evince l’importanza del senso di autoefficacia nel stimolare la motivazione.
Per questo motivo, per esempio invece di cercare di compensare il disturbo, è bene concentrarsi su attività coerenti con la esperienza dello studente, se c’è da scrivere un testo, si cerca il modo più funzionale, con o senza tastiera, per raggiungere questo obiettivo. L’attenzione dev’essere focalizzata sull’attività complessa e non sugli strumenti. Il risultato sarà gratificante perché il ragazzo sarà riuscito nel suo lavoro, e basta, non sarà merito degli strumenti. Ecco il senso di autoefficacia.
La sfida sta non solo nel ragionare in termini di potenziale (invece che di aiuto per un deficit), ma di fare percepire questo potenziale. Per far questo, lo strumento deve rimanere un mezzo, così che lo studente dislessico si senta capace di svolgere il suo compito. Con questo atteggiamento sarà attivo e protagonista del suo studio.
Specialmente per quanto riguarda gli studenti con DSA è essenziale vivere il proprio percorso di studio e di vita con consapevolezza. Gli strumenti compensativi e dispensativi devono conservare la loro funzione strumentale. In questo modo la soddisfazione intrinseca stimolerà la motivazione e permetterà a questi studenti di gestire meglio sia i propri sforzi che i rapporti con gli adulti, la scuola e i genitori.
Se te lo sei perso questo è il primo articolo della serie: Il metodo di studio, la sfida di tutti gli studenti.